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Il problema del moto
Si è già accennata la centralità della ricerca sul moto dei corpi nell’opera di Galileo; egli iniziò ad occuparsi di esso in termini aristotelici già nei primi anni di insegnamento. Ma, sulla base di esperienze svolte, egli si accorse ben presto della scarsa applicabilità dei dogmi aristotelici alle osservazioni, sia pure in termini qualitativi. Dobbiamo pensare inoltre che il concetto stesso di velocità a noi così familiare, ossia uno spazio diviso per il tempo impiegato a percorrerlo (è questo il significato della scritta Km/h sul tachimetro di un’autovettura), era nel 1600 assai vago; Galileo si trovò dunque a dover definire dapprima in termini trattabili matematicamente questo importante elemento del moto. Ma il problema maggiore era il sistema di calcolo usato dallo studioso in cui non era pensabile effettuare operazioni fra grandezze che non fossero tra loro omogenee, ossia relative a due cose così diverse come lo spazio  ed il tempo; egli fu costretto a dover ragionare quindi su rapporti omogenei di velocità riferite a diversi intervalli.
In altre parole, per analizzare il movimento di un corpo con un regolo, non potendo semplicemente dividere uno spazio per un intervallo di tempo, egli deve fare riferimento a rapporti di velocità intercorrenti fra le diverse suddivisioni dello strumento; l’indubbio passo in avanti costituisce nel fatto che così è comunque possibile effettuare dei calcoli, ossia delle predizioni.
A partire dal 1593 Galileo dimostrò di avere ben chiari i punti deboli degli assunti aristotelici: egli si trovava in possesso di un concetto quantitativo di velocità, era convinto di come non fosse affatto necessaria una forza per mantenere in moto un corpo ed era persuaso della necessità di creare un ponte costituito dall’osservazione e dalla misura fra il “mondo di carta” costituito dai calcoli matematici eseguiti a partire da leggi fisiche ed il “mondo reale” di cui il primo costituisce un modello. Il modello è valido se consente, al solito, di effettuare predizioni le quali possono essere verificate con mezzi sperimentali in una certa approssimazione la quale è tanto migliore quanto più il modello si trova all’interno del proprio campo di attuabilità e quanto è alta la qualità delle misure.
Una cosa fra le altre che rende Galileo uno dei pionieri della fisica è il fatto di essersi reso ben conto della necessità di spogliare un qualunque fenomeno fisico dai suoi particolari inessenziali per coglierne la vera essenza. Il mondo di carta è fatto di oggetti ideali che si muovono in uno spazio ideale: le sfere sono perfette e rotolano senza attrito su di un piano inclinato pure lui perfetto; questo consente di concentrarsi sul moto in sé senza essere costretti ad arrovellarsi su come la presenza delle rugosità del legno vada ad influire sul rotolamento della sferetta la quale, per quanto ben tornita, presenterà comunque dei bozzi irregolari sulla sua superficie sia pure di dimensione molto piccola. Questo non è un fatto banale!

Un disegno di George Gamow (1902-1968) che rappresenta Galileo alle prese con il piano inclinato
Pensiamo alla descrizione data da Aristotele della caduta di un grave: esso si muove di una velocità costante la quale dipende direttamente dal peso del corpo ed inversamente dalla viscosità del mezzo in cui esso si muove; ebbene, essa è ragionevolissima, si provi a far cadere una pallina d’acciaio in una vasca d’olio e si noterà che essa, dopo un po’, si muoverà di velocità costante… Quindi siamo a posto, con buona pace dei peripatetici! E invece no: Galileo riesce a fornire una spiegazione ben più profonda e feconda, egli infatti descrive la situazione a prescindere dell’attrito in cui un qualunque grave di qualsivoglia peso e forma si muove verso il basso di moto uniformemente accelerato. Questo vuol dire che se noi gettiamo una pietra dall’alto di una torre alta 50 metri, questa dopo un secondo avrà una velocità di 9,81m/s (35,3Km/h circa), dopo due secondi 19,62m/s (70,6Km/h), doppia della precedente, e così via per arrivare a terra dopo 3,19s alla considerevole velocità di 31,29m/s (112,66Km/h). In formule, detto t il tempo trascorso, a l’accelerazione di gravità (sulla terra all’equatore 9,81m/s2), s lo spazio percorso e v la velocità raggiunta, si avrà:
v=at

s=0,5at2
 Nella già citata opera di Einstein ed Infeld si legge: “Il contributo di Galileo ha consistito nel demolire la veduta intuitiva sostituendola con una assai diversa e nuova. Questo è il grande significato della scoperta di Galileo”.
I valori forniti dalle leggi scritte in precedenza sono ovviamente ottenuti trascurando la resistenza dell’aria; in realtà tenendo conto di questo effetto si avrebbe una velocità lievemente inferiore dipendente anche dalla forma dell’oggetto che viene lasciato cadere; ciò è peraltro un bene sotto certi aspetti, altrimenti correremmo il rischio di venire uccisi da un chicco di grandine sparato a centinaia di metri al secondo, oppure anche da una goccia d’acqua a tale micidiale velocità. Peraltro, le gocce d’acqua non avrebbero la forma tondeggiante a cui siamo abituati… Ecco che il nostro mondo idealizzato diventa un poco meno liscio e dobbiamo modellare gli ostacoli al moto: la palla si copre di peli, il piano inclinato diventa un po’ più ruvido e così via…
La formulazione della corretta legge di caduta peraltro richiese molto tempo a Galileo per essere scovata sia per la necessità di definire anche il concetto di accelerazione alla quale allora non veniva assegnata quasi alcuna importanza, sia per la difficoltà di effettuare misure accurate di moti di caduta i quali richiedono la misurazione di tempi piuttosto brevi. Un grande aiuto venne dall’uso del piano inclinato per rallentare il moto, rendendolo così più facilmente osservabile e rendendo trascurabili, se tutto l’apparecchio è ben costruito, gli errori dovuti agli inevitabili attriti e consentendo di adoperare per la misura dei tempi un orologio ad acqua. Una tecnica curiosa che lo scienziato adoperò all’inizio delle sue esperienze per misurare le velocità fu quella di misurare le deformazioni indotte dalla caduta di una pallina di piombo da diverse altezze su di una tavoletta deformabile, per esempio di cera. La profondità dell’incavo scavato dall’impatto è infatti collegata, anche se in maniera quadratica, alla velocità con cui la pallina è arrivata sul bersaglio e dipende anche dal suo peso. Questo lo portò dapprincipio a formulare l’ipotesi erronea che la velocità della pallina dipendesse linearmente dalla distanza percorsa (invece che dal suo quadrato, come poi scoprì in seguito).
Galileo arrivò anche a due altri risultati di importanza fondamentale per la meccanica, ossia egli formulò quello che sarà il primo principio della dinamica newtoniana e che è in aperto contrasto con le ipotesi aristoteliche, che può venire enunciato in termini moderni come: ogni corpo permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme rispetto ad un qualunque sistema di riferimento inerziale fintantoché non intervenga qualche causa esterna a modificare tale stato. Il secondo grande contributo è di un’eleganza senza pari e va sotto il nome di principio di relatività galileiana, per il quale una delle diverse possibili forme è l’impossibilità di discriminare attraverso un qualunque esperimento fisico lo stato di moto uniforme di un sistema a meno di non fare riferimento ad un sistema di riferimento esterno. La spiegazione che il nostro scienziato presenta in un celebre passo del Dialogo sopra i Massimi Sistemi è giustamente celebrata come un capolavoro di semplicità e di divulgazione scientifica: “Rinserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di un gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto in basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazi passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benchè niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; che (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina o pure stia ferma”. Si badi bene che questo punto è di fondamentale importanza anche nella critica cosmologica del sistema tolemaico in quanto uno dei problemi del sistema copernicano era la mancanza dell’osservazione nel moto terrestre di quegli effetti che intuitivamente sono associati alla velocità. In altre parole, se la terra compie un giro su se stessa ogni 24 ore, perché non vi sono dei venti di incredibile potenza e gli uccelli possono librarsi in volo senza problemi? Il principio di relatività galileiana, da cui tra l’altro si possono ottenere delle semplici formule utili per descrivere le leggi di composizione dei moti e delle velocità, è un punto di importanza primaria proprio per evidenziare l’infondatezza di tali argomentazioni, data anche la possibilità di confondere almeno in piccola scala il moto circolare uniforme della terra con la tangente rettilinea. Si badi bene che proprio l’idea che sta nel cuore del principio di relatività galileiana venne estesa ad una classe più ampia di fenomeni da Albert Einstein nella formulazione delle teorie della relatività ristretta (1905) e generale (1916).
Il Saggiatore, Il Dialogo sopra i Massimi Sistemi e la definitiva sconfitta
La situazione di silenzio a cui era costretto dalle ammonizioni del cardinal Bellarmino non venne sopportata a lungo dal carattere dello scienziato anticonformista e profondamente convinto dell’erroneità delle posizioni ufficiali tolemaiche. Con la morte, nel 1621, del cardinale e l’ascesa al soglio pontificio di Maffeo Barberini con il nome di Urbano VIII nel 1623, la situazione sembra diventare più propizia per lo scienziato il quale pubblica nell’ottobre dello stesso anno, dedicandolo proprio al nuovo Papa, Il Saggiatore, un testo fondamentale in cui, con il pretesto di controbattere ad argomentazioni sulla natura delle comete, egli esponeva una vera e propria “teoria della conoscenza”. Uno dei punti più importanti era la raggiunta consapevolezza della grande complessità della natura: egli ammise candidamente di non sapere “precisamente determinar la maniera della produzzion della cometa”, ma di non ritenere questo affatto strano, in quanto fenomeni di tal fatta potevano prodursi in modo completamente al di fuori della nostra immaginazione. Questa è, se si vuole, un modo di pensare simile per certi aspetti al “non sapere” socratico ed è uno dei principali punti fermi della cultura scientifica; una legge scientifica non è per sua natura né sicura, né può venire dimostrata in alcun modo come accade invece per un teorema matematico; semplicemente essa si adatta ai dati sperimentali e nessuno sa il perché; ecco che il dubbio acquista dunque un gran valore nell’indagine.
Rappresentazioni del sistema tolemaico (a sinistra, in un'immagine tratta da in Atlas Coelestis seu Harmonia Macrocosmica Amsterdam, 1661) e del sistema copernicano (a destra, in un'incisione di Thomas Diggers del 1576).




Sempre ne Il Saggiatore erano analizzati i rapporti che dovevano intercorrere tra l’osservazione compiuta dai sensi e le indicazioni oggettive necessarie alla costruzione di un solido insieme di leggi matematiche; invece di una concezione dell’universo concepita in termini aristotelici come “grandezze, figure, moltitudini, movimenti tardi o veloci”, egli proponeva la scienza come cammino verso la verità in quanto in grado di fornire indicazioni oggettive e quindi direttamente confrontabili con il mondo reale. Infine egli precisava il ruolo della matematica nella conoscenza della natura: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”; si confrontino le parole di Galileo con quelle scritte nel XX secolo da Feynman: “Per quelli che non conoscono la matematica è difficile arrivare al vero apprezzamento della bellezza, la grandissima bellezza della natura. […] Se volete conoscere e apprezzare la natura è necessario capire la lingua che parla.”.
Peraltro, in questo periodo -di salute malferma per Galileo-, sembra che a Roma vi fosse una maggiore indulgenza verso lo scienziato ed egli credette, a torto come vedremo, di esser sufficientemente al sicuro da poter ritornare a parlare in maniera decisa delle ipotesi copernicane in una nuova opera che pubblicò nel 1632, ossia il Dialogo sopra i Massimi Sistemi, del quale l’autore aveva dichiarato come imminente la pubblicazione molti anni prima nel Sidereus Nuncius. Il Dialogo è forse una delle opere più importanti di Galileo ed occupa anche un considerevole rilievo nella storia della letteratura italiana del periodo; esso è articolato in quattro “giornate” in cui si intrecciano le discussioni intorno alla natura di tre studiosi: Simplicio, che riporta le ipotesi dei filosofi in libris aristotelici, Sagredo che è un giovane di acuto intelletto e ben disposto ad ascoltare ed argomentare senza costrizioni intellettuali e Salviati il quale è nel libro la vera voce di Galileo. I temi trattati sono svariati e spaziano dal moto, all’astronomia e, nella quarta giornata, al fenomeno delle maree; per quanto riguarda il moto viene enunciato (come citato in precedenza) il principio di relatività e viene presentata la legge di caduta dei corpi, a cui è applicato l’artificio matematico della composizione dei moti per spiegare il moto di un proiettile. Per quanto concerne l’astronomia, le ipotesi copernicane sono difese a spada tratta e si indugia su questioni come la corruttibilità della Luna, la natura dei suoi rilievi ecc…
Ma il Dialogo era un riassunto di un po’ tutte le concezioni e le idee del nostro scienziato il quale peraltro non mancava di lanciar strali ai peripatetici con la sua ironia acuta; in sé, il libro è un’opera eccellente di divulgazione scientifica e presenta tuttora una grande attualità, anche se alcune delle posizioni galileiane si sono rivelate parzialmente errate, come la spiegazione del moto delle maree. In essa sono presenti principi fondamentali e nuovi che avrebbero posto le basi di un nuovo sapere organizzato in maniera ben diversa dalle posizioni di Aristotele; in esso è presente l’idea di una descrizione unificata della natura per mezzo di semplici leggi accessibili all’uomo; si pensi che lo scrittore mostra più volte di avere inteso che la forza che costringe una pietra a cadere in terra è la stessa che costringe i pianeti a muoversi in cerchio nelle loro orbite, anticipando così in maniera fondamentale le intuizioni di Newton. L’opera fu però corredata da un’introduzione “al discreto lettore” la quale precisava che le posizioni copernicane sostenute da Salviati non erano altro che “pura ipotesi matematica” senza alcuna pretesa di verità: lo scienziato fu dunque costretto, per prudenza, non certo per intima convinzione, a trasferire le sue ipotesi dal campo del reale a quello del possibile, facendo così in qualche modo un’eco alla prefazione di Osiander al libro di Copernico. Leggendo il libro tuttavia, risulta evidente che le parole di Salviati sono ben altro che finzione scenica e non mancano di mordente nei confronti della filosofia “in libris”. In realtà Galileo prese nuovamente sottogamba le critiche nei suoi confronti e la reazione delle autorità ecclesiastiche si fece sentire in maniera decisa quasi subito dopo la pubblicazione del libro, il quale era comunque stato approvato dalla censura; in particolare fu proprio il Papa Urbano VIII a prendere posizione. Nella chiusura del libro infatti veniva esposta per bocca di Simplicio (che per il resto costituiva il bersaglio della polemica) la dottrina esposta personalmente dal Papa allo scienziato secondo la quale Dio nella propria potenza può mostrare i fenomeni osservabili in una infinità di modi diversi e dunque l’osservazione di eventi non può condurre in alcun modo alla verità. La reazione fu molto dura, il Papa era accusato da molti di essere troppo liberale sul piano culturale (siamo sempre in periodo di controriforma) e scelse Galileo come capro espiatorio anche per ottenere qualche beneficio nella difficile situazione politica internazionale che interessava lo Stato pontificio in quel periodo, con un’agricoltura ed un progresso quasi strozzati.
Una suggestiva vista di Giove con i quattro satelliti Galileiani; da sinistra si vedono Callisto, Io, Europa, Ganimede




Nell’ottobre del 1632 lo scienziato, il quale era ormai sessantottenne ed attraversava un periodo di cattiva salute, ricevette l’ordine di presentarsi entro trenta giorni a Roma presso il Commissario dell’Inquisizione; egli non poteva venire accusato per la pubblicazione del Dialogo, in quanto questo era stato comunque approvato dalla censura, ma poteva venire colpito per non avere rispettato l’ordine del cardinal Bellarmino del 1616 che gli impediva di sostenere in alcun modo l’ipotesi copernicana. Il problema non era di poco conto anche perché l’ingiunzione del 1616 non gli avrebbe impedito di trattare la questione copernicana come “semplice ipotesi matematica” e Galileo fu durante alcuni interrogatori preso alle strette proprio su questo punto. Il fatto è che il Dialogo è a dispetto dell’introduzione interamente volto a smontare la dottrina tolemaica e lo scienziato fu costretto ad ammettere, di fronte alla Santa Congregazione, che la lettura del testo avrebbe potuto in effetti trarre in inganno i lettori, convincendoli della verità delle ipotesi copernicane. La linea di difesa fu quella di provare la buona fede e manifestare la disponibilità nel correggere il testo nei punti che gli inquisitori avrebbero ritenuti opportuni, tenendo conto inoltre dell’età avanzata dello studioso il quale avrebbe commesso tali “delitti” anche a causa della “cadente vecchiezza”

L' accusa tornò nuovamente alla carica poco più di un mese dopo chiedendo a Galileo di confessare la propria fede in Copernico e di dire la verità, oppure si sarebbe passati alla tortura; la sentenza fu pronunciata il 22 giugno 1632 in Santa Maria della Minerva, in cui fu comunicato all’accusato di essere “vehementemente sospetto d’heresia” e soggetto dunque alle pene conseguenti. Il Dialogo fu proibito e lo scienziato fu condannato al carcere e fu costretto a pronunciare la famosa abiura, di cui ecco la parte terminale: “Con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie e generalmente ogni et qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose per le quali si possa haver di me simil sospitione; ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d’heresia, lo denontiarò a questo S. Offizio ovvero all’Inquisitore o Ordinario del luogo dove mi trovarò. Giuro anco e prometto di adempire et osservare intieremente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Offizio imposte; e contravvenendo ad alcuna delle mie promesse e giuramenti, che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni et altre costitutioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.”. Lo scienziato venne dapprima trasferito a Siena, sotto la custodia dell’arcivescovo Piccolomini (a lui amico), e pochi mesi più tardi si permise che si trasferisse ad Arcetri, in isolamento. Anche se in condizioni di sorveglianza, Galileo riuscì a pubblicare nel a Leida i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze nel 1638, anno in cui perdette completamente la vista, ed in esso erano esposte in forma piuttosto tecnica e meno divulgativa rispetto al Dialogo concetti inerenti la fisica del moto e la resistenza dei materiali.
Gli ultimi anni di vita fino alla morte avvenuta l’8 gennaio del 1642 furono amari a causa della cecità e della sconfitta intellettuale inflittagli dalla Chiesa, ma egli poté nondimeno avere attorno alcuni allievi, fra cui meritano di essere ricordati Vincenzo Viviani che andò a vivere con lo scienziato a partire dal 1639 ed Evangelista Torricelli che venne ospitato a partire dell’autunno del 1641; un lutto gravissimo fu quello provocato dalla morte della figlia Virginia, suor Maria Celeste il 2 aprile 1634 nel convento di S. Matteo ad Arcetri. La perdita della figlia fu molto grave in quanto ella rappresentò per lo scienziato un grande conforto soprattutto nel difficile periodo del processo.
La proibizione di trattare questioni intorno al moto della terra non fu revocata fino al 1757.

Perché le teorie galileiane sono teorie scientifiche?
Abbiamo parlato delle ipotesi aristoteliche ed abbiamo visto come esse, in un certo modo, si accordassero alla descrizione qualitativa dei fenomeni naturali così come percepibili dai nostri sensi, in contrapposizione alla descrizione astratta e quantitativa fornita da Galileo; ci possiamo dunque porre la sensata questione del perché le teorie galileiane siano preferibili rispetto alle vecchie supposizioni aristoteliche le quali pure appaiono a prima vista così ragionevoli. La risposta è che il valore di una teoria scientifica è quello di poter formulare delle predizioni, anche se queste sono sempre ed inevitabilmente affette da errori (la stima dei quali costituisce un campo fondamentale per conoscere la qualità della predizione stessa). Non serve a nulla una teoria la quale di fronte ad un fenomeno già avvenuto ne spieghi con dovizia di particolari il perché è avvenuto proprio in quel modo. Questo è quanto accade per esempio nei sistemi applicati al gioco del lotto, i quali si basano sulla teoria dei ritardi la quale è un perfetto esempio di spiegazione a posteriori e di calcolo delle probabilità mal digerito; di lavoro scientifico la teoria dei ritardi possiede solo la forma esteriore e magari i termini, usati più per impressionare chi non è preparato sull’argomento, senza cogliere in alcun modo la sostanza del ragionamento scientifico, senza la quale i calcoli ed i paroloni non hanno alcuna ragione di esistere. Beninteso, una teoria predittiva valida deve essere in grado di descrivere con sufficiente precisione (si badi bene, descrivere, non spiegare!) anche le esperienze avvenute.
Si capisce dunque così perché le argomentazioni dei filosofi che commentavano Aristotele al tempo di Galileo non potevano stare in piedi; le loro spiegazioni diventano involute e contorte nel momento in cui i fenomeni non sono più banali, ed esse fanno ricorso ad un gran numero di ipotesi aggiuntive non verificabili circa la natura dei corpi coinvolti. Può apparire una grande pecca l’impossibilità della scienza attuale nello spiegare il perché dei fenomeni, ma solo il come, ma dobbiamo ammettere sinceramente che questo è quanto di meglio siamo stati in grado di fare lungo il corso di trecentocinquant’anni di scienza; questa è stata una strada fertile che non minaccia finora di incontrare un vicolo cieco; se un domani si riuscirà ad andare oltre la descrizione quantitativa dei fenomeni, tanto meglio, ma per adesso conviene che ci atteniamo a quanto affermato da L. Wittgenstein nel 1918 all’interno del suo Tractatus Logico-Philosophicus “Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Ma c’è un altro punto, più sottile, che è stato messo in luce da uno delle grandi menti del pensiero filosofico del XX secolo, K. R. Popper, ossia che una teoria scientifica è falsificabile; questo vuole dire che una conclusione scientifica non può essere mai provata del tutto come vera, ma basta un’unica prova contraria per dimostrarla falsa. 

Un ritratto di Galileo conservato all'Accademia dei Lincei
Una legge fisica non può mai essere controllata con sicurezza; possiamo vagliare risultati di decine di migliaia di esperimenti condotti in condizioni sempre differenti che sembrano confermare la nostra legge, ma chi ci dice che non esista almeno una condizione in cui essa non è verificata? La falsificazione di una teoria, ossia il dimostrare che essa non è valida per spiegare un evento sperimentale non è un processo distruttivo, ma è un grande passo in avanti nella ricerca di una teoria più generale la quale risulti valida anche per le situazioni in cui le vecchie supposizioni erano in difficoltà. La vecchia teoria entra a far parte di una nuova più generale che la ingloba come caso particolare, così come la relatività galileiana è un caso particolare della relatività speciale einsteniana del 1905 e quest’ultima sia nuovamente un caso particolare della relatività generale del 1916. Ecco alcune righe di Popper sull’argomento: “La risposta appropriata alla mia domanda <In che modo possiamo sperare di scoprire l’errore e di eliminarlo?> è, a mio avviso, la seguente: <Criticando le teorie o i tentativi congetturali fatti dagli altri e, se possiamo educarci a farlo, criticando le nostre stesse teorie e i nostri tentativi congetturali>”.
Bibliografia
Il lettore interessato a Galileo può trovare nella letteratura centinaia di opere di alta qualità dedicategli; qui sono riportate le opere a cui ho fatto riferimento per la stesura del presente testo ed a cui sono presenti frequenti riferimenti.

[Bellone] Galileo: le opere e i giorni di una mente inquieta di Enrico Bellone edito nella collana “I grandi della scienza” anno 1, n.1 da Le Scienze, Milano, febbraio 1998.

[Geymonat] Galileo Galilei di Ludovico Geymonat, Einaudi, Torino 1957

[Galilei] Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei, a cura di Libero Sosio,  Einaudi, Torino 1970

[Einstein] L’evoluzione della fisica: dai concetti iniziali alla relatività e ai quanti di A. Einstein e L. Infeld, Bollati Boringhieri Torino 1965; titolo originale: The Evolution of Physics, The Growth from Early Concepts to Relativity and Quanta 1938

[Feynman1] The Feynman Lectures on Physics vol. I, Richard P. Feynman, Robert B. Leighton, Mattew Sands, Addison-Wesley, Reading, Massachussetts 1965

[Feynman2] La legge fisica di Richard P. Feynman, Bollati Boringhieri, Torino 1971 rist. 1998; titolo originale: The Character of Physical Law, British Broadcasting Corporation, London 1965

[Rossi] Storia della scienza moderna e contemporanea; volume 1: Dalla rivoluzione scientifica all’età dei lumi, tomo 1, a cura di P. Rossi, Tascabili degli Editori Associati S.p.A. © 1988-1998 UTET

[Popper] La scienza e i suoi nemici di Karl R. Popper, Armando Editore, Roma 2000

[Gamow] Biografia della fisica di George Gamow, Oscar Saggi Mondadori, settembre 1988; titolo originale: Biography of Physics, Harper Modern Science Series edited by James Newman, 1961

[Segrè] Personaggi e scoperte della fisica di Emilio Segrè, Oscar Saggi Mondadori

[Hoyle] L’astronomia di Fred Hoyle, Sansoni, Firenze 1963, titolo originale Astronomy, Rathbone Books Limited, London 1962

[Koyré] Etudes galiléennes, Hermann 1966 Paris, nouveau tirage 2001

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